L'Opera di Berlino prosegue nella riproposizione dei lavori di Meyerbeer; questa produzione di Les Huguenots per la regia di David Alden si lascia seguire nella monumentale durata e non consente cedimenti di attenzione. Da segnalare la direzione di Michele Mariotti e il protagonista Juan Diego Florez.
Berlino, Deutsche Oper, “Les Huguenots” di Giacomo Meyerbeer
Dieu le veut?
Le opere di Giacomo Meyerbeer ebbero un successo straordinario all’epoca della loro creazione, divenendo durante il Regno di Luigi Filippo musica di consumo per l’alta borghesia parigina desiderosa di spettacoli dai grandi effetti scenici e musicali, ma poi, per varie ragioni, non ultima l’azione di screditamento perseguita da Wagner, scomparvero progressivamente dal repertorio. Negli ultimi anni si sta assistendo a un rinnovato interesse nei confronti del compositore e la Deutsche Oper di Berlino porta avanti un importante progetto di riscoperta; dopo “Dinorah” e “Vasco de Gama” mette ora in scena “Les Huguenots” a cui seguirà nella stagione prossima “Le Prophète”. Gli Ugonotti, l’opera più conosciuta e rappresentata di Meyerbeer, costituiscono uno dei migliori esempi di grand-opéra, ovvero uno spettacolo–contenitore di lunga durata che prevede grandi scene d’insieme, cori poderosi, coreografie complesse e scenografie sfarzose per sorprendere lo spettatore. Il grand–opéra è dunque per natura un genere composito e anche gli Ugonotti (e qui sta, oltre al loro fascino, un’indubbia difficoltà esecutiva) sono un’opera eterogenea dal punto di vista musicale, tematico e di atmosfera: mentre i primi due atti sono ironici e leggeri, i tre successivi privilegiano un affresco storico monumentale e drammatico che trova il suo culmine nella notte di San Bartolomeo, quando nel 1572 furono massacrati migliaia di Ugonotti dalla fazione cattolica.
Il regista David Alden, di cui avevamo già apprezzato a Berlino Peter Grimes, non adotta un’ambientazione precisa, né tantomeno un’attualizzazione (peraltro possibile, considerato il tema del fanatismo religioso), ma preferisce trarre ispirazione da stili ed epoche diverse (dall’Ottocento contemporaneo di Meyerbeer al Rinascimento della Controriforma) per sottolineare, in una sorta di collage dove elementi diversi coesistono, l’eclettismo dell’opera. La scena di Gilles Cadle rimane fissa per i cinque atti: un interno spoglio dalle pareti di lamiera ondulata che allude a una chiesa, evocata dalle travature lignee del tetto e soprattutto da una grande campana incombente. Un sipario, di volta in volta tappezzeria cortese, boiserie o galleria di ritratti cinquecenteschi, cala dall’alto occultando la chiesa e ambientando l’azione scenica in un contesto “di facciata”, ovvero il salotto edonista di Nevers dalle rosse poltrone capitonnées e lampadari di cristallo, gli appartamenti della Regina, la quadreria del Conte di Saint-Bris. Nell’eterogeneità del tutto ci sta pure che la Regina, ma anche Raoul e Valentine, entrino ed escano di scena su di un gigantesco e quasi surreale cavallo bianco movimentato a vista. Se i primi due atti sono decisamente leggeri e mettono in scena un mondo frivolo non privo di humor con gags e situazioni che guardano all’operetta o all’avanspettacolo (non a caso Alden sostiene che Meyerbeer possa essere considerato un precursore del musical di Broadway e della cosiddetta musica di consumo), a partire dal terzo si respira un netto avvitamento drammatico. Le due diverse fazioni religiose, sedute in chiesa a leggere la bibbia, emanano una tensione composta e compressa che progressivamente si manifesta con movimenti scenici asciutti: niente balletti né tableaux vivants, quanto un semplice cambiare di posto o alzare le braccia (carnefice o vittima?) che bastano a segnalare il montare del fanatismo e dell’odio. Alden riesce a muovere le masse (un centinaio fra coristi e comparse) con assoluta precisione e assistiamo a una caccia all’infedele sempre più drammatica e spietata: le suore affilano le armi nelle tuniche, i fanatici cattolici si aggirano incappucciati come boia, il Conte di Nevers viene crocifisso per non aver voluto partecipare alla strage
e sul fondo della scena campeggia una scritta bianca su fondo nero “DIEU LE VEUT“ che qui suona come una pericolosa incitazione al massacro. Nella scena finale il tetto della chiesa si abbassa progressivamente schiacciando gli ugonotti intrappolati tra le travature lignee, le croci conficcate sul tetto diventano torce di fuoco e dalla chiesa esce la Regina attonita con l’abito insanguinato, l’orrore nel volto e le braccia tese al cielo.
Lo spettacolo, decisamente lungo (l’opera è stata rappresentata in una versione pressoché integrale), appassiona senza cadute di tensione, merito sì della musica di Meyerbeer, concepita proprio per tenere sempre desta l’attenzione, ma anche di una regia che ottiene col minimo effetto il massimo risultato. La produzione in scena a Berlino vanta un ottimo cast e vede fra i motivi d’interesse il debutto di Juan Diego Florez nel ruolo di Raoul; il grande tenore rossiniano sta infatti virando la propria carriera al repertorio francese con eccellenti risultati: la voce è sempre la stessa e, anche se “piccola”, non ha difficoltà a passare le imponenti masse corali risultando sempre nitida e ferma per tutta la durata dello spettacolo, merito di una tecnica e di un controllo del fiato che ci sembrano tuttora senza rivali; ammalia nella sua elegiaca aria d’ingresso accompagnato dalla suadente viola d’amore, ma anche nei duetti e nell’impegnativo terzetto finale per l’eleganza di un canto senza sbavature, la sicurezza lucente degli acuti, il fraseggio sfumato e non ultima una dizione francese eccellente; non da meno naturalezza simpatia in scena. Ci è piaciuto molto il servitore Marcel interpretato da Ante Jerkunica che, con voce profonda di basso, ha saputo delineare la varietà stilistica della parte, dal canto luterano a quello popolare farsesco; oltre a un registro grave davvero notevole, si apprezza la capacità di aver delineato tutte le caratteristiche del personaggio, dal fanatismo religioso esasperata alla profonda humanitas. Qualche perplessità sulla Regina Marguerite di Patrizia Ciofi: le colorature sono ancora nitide ma non più spettacolari come un tempo e si avvertono difficoltà nei passaggi di registro in zona medio-grave; l’artista compensa però con un gioco scenico brillante, sicuramente una regina per allure e carisma. Da seguire Irene Roberts, qui nella parte en travesti del paggio Urbain, per una materia vocale di assoluto rilievo ma anche per il gusto e la tecnica con cui si è cimentata nei vocalizzi, precisi e leggeri come ricami. Fra i personaggi femminili quello di Valentine è quello più complesso e difficile e la giovane soprano russa Olesya Golovneva, inizialmente poco caratterizzata e dalla voce un po’ acerba, ha dato luogo a un’esecuzione in crescendo, sia dal punto di vista vocale (notevole il controllo dell’emissione e dei passaggi) che emozionale, conquistando letteralmente il pubblico. Marc Barrard canta in modo corretto ma dall’unico francese del cast ci saremmo aspettati un Conte di Nevers più incisivo e approfondito. Decisamente sonoro il Conte di Saint-Bris di Derek Welton ma il personaggio risulta troppo monolitico. Concludono degnamente il cast le due ragazze cattoliche di Adriana Ferfezka e Abigail Lewis.
Alle prese con Meyerbeer Michele Mariotti adotta una direzione chiara e ricca di sfumature che guarda a Rossini e al belcanto nell’accompagnare, senza mai sovrastare, i solisti conseguendo un ottimo amalgama fra buca e palcoscenico. Col gesto che lo caratterizza Mariotti imprime fluidità alla partitura e ne valorizza i tratti “all’italiana”, ma non sempre scolpisce i contrasti nel monumentale affresco storico di Meyerbeer. Di grande impatto scenico e vocale il precisissimo Coro della Deutsche Oper diretto da Raymond Hugues.
Grandissimo successo di pubblico per una produzione di alto livello che ha il merito di rendere Meyerbeer di nuovo godibile.
Visto a Berlino, Deutsche Oper, il 26/11/16